Quando si parla dei prodotti Apple, si finisce sempre a discutere del “valore aggiunto” del brand. Tanto i critici, quanto gli ammiratori, sono concordi a riconoscergli un ruolo centrale nella strategia aziendale. Il carisma del brand sono gli Apple Store, più simili a delle cattedrali che a un comune negozio. Eppure quel nuovo modo di concepire lo store in un unico open space con i prodotti alla portata di tutti sembra un passo verso il futuro, è un concept inventato da un italiano venti anni prima che la Apple nascesse.
È il 1954 quando Adriano Olivetti, imprenditore italiano che dirige 1′ omonima azienda produttrice di macchine da scrivere, decide di aprire un negozio monomarca a NewYork. Ingaggia un prestigioso studio di architetti, il B.B. P.R. , e sceglie uno dei luoghi più ricchi e glamour della città, sulla Fifth Avenue.
Ciò che esce fuori dalla filosofia di Adriano e dalle idee degli architetti non ha precedenti nella storia del design di esercizi commerciali (ma avrà ben noti successori). L’Olivetti Store è un open-space tutto marmo e vetro, aperto agli occhi e ai clienti, con le macchine da scrivere esposte. Chiunque può entrare e provarle, lasciare un messaggio o magari portarselo a casa. Sì, sappiamo che vi ricorda qualcosa.
La Olivetti si stava affermando come azienda leader ed era evidente che i suoi negozi fossero qualcosa di più che degli eleganti show-room di rappresentanza: erano piuttosto una concreta manifestazione di quello stile che permeava ogni settore dell’attività aziendale. La convinzione era che non bastasse fare un bel prodotto, ma bisognasse anche farlo bene e proporlo al cliente in un bel negozio, capace, con la sua architettura, di esaltare caratteri innovativi del marchio. Insomma tutto quello che gli altri hanno fatto decenni più tardi.
Gli Store Olivetti divennero presto una sorta di manifesto architettonico con cui stupire il mondo e all’inizio degli anni Cinquanta il cuore pulsante di quel mondo si trovava a New York. Ipassanti di Manhattan avevano la sensazione di osservare il futuro, e non si sbagliavano. Nel 1953 una macchina da scrivere era l’equivalente di quello che per noi potrebbe essere l’ultimo iPad. Un oggetto bellissimo ma anche piuttosto costoso. Trovarlo lì, mentre si camminava distrattamente e poterlo provare, era qualcosa di insolito che lo faceva apparire alla portata di tutti. E così molti dei passanti entravano incuriositi nel negozio e ciò che si trovavano di fronte, una volta varcata l’enorme porta in noce alta quasi cinque metri, era qualcosa di mai visto. I colori innanzi tutto. Il verde del pavimento in marmo di Runaz ammantava tutto l’ambiente mentre in alcuni punti la pietra sembrava deformarsi plasmando sinuose stalagmiti sulle quali erano ancorati dei raffinatissimi supporti in acciaio che sorreggevano i prodotti in esposizione. Al di sopra delle variopinte lampade a sospensione in vetro di Murano, realizzate da Venini, illuminavano in modo puntuale la sala facendo risaltare il design Olivetti. Poco più in là una grande ruota in metallo, simile ad un grande ingranaggio, ruotava ininterrottamente trasportando altri modelli di macchine da scrivere direttamente dal magazzino sottostante.
Adriano Olivetti scomparirà nel 1960. Due anni dopo nasce la divisione elettronica dell’azienda, guidata da suo figlio Roberto che inizierà a sperimentare con i computer. L’Olivetti però non riuscirà mai a imporsi in quel mercato e, poco più di dieci anni dopo, tre ragazzi emergeranno da un famoso garage della California con un’idea in testa e la voglia di prendersi il mondo.
Eppure noi sappiamo che quei negozi scintillanti che apriranno molti anni dopo non sono frutto del loro genio. Come diceva Picasso a proposito dei grandi artisti: la genialità sta anche e soprattutto nel saper copiare.